“…Ciao. Vieni che andiamo di sopra a berlo insieme. Qui fa freddo ed è umido. E poi, di nascosto, non si assapora…”
Quando un vino ferma il tempo e riporta alla memoria immagini, odori, ricordi…
Parole che vanno oltre, accarezzano il cuore ed accompagnano in un viaggio dove si abbracciano e si fondono la nostalgia ed il piacere del vissuto.
Questo racconto non mi appartiene, è una di quelle letture che scopri “navigando” e catturano l’attenzione, forse perchè ci riconosci alcuni frammenti della tua vita.
Ho cercato di contattare “Madeleine” perchè desideravo pubblicarlo e volevo chiedere la sua autorizzazione. Non ci sono riuscita. Lo condivido con voi perchè mi piace davvero molto l’immagine che prende forma fra queste parole e le sensazioni che suscita, mi auguro che la scrittrice non ne sia infastidita.
“Il vino del nonno” di Madeleine
Dedicato ad Anna e Alberto. A tutta la loro bellezza.
Quando ero bambina i miei genitori avevano un’osteria, “da Bianca” si chiamava, come mia madre, per la quale il nonno l’aveva costruita.
Era una locanda semplice. Senza pretese.
Sono cresciuta lì, tra le panche e i tavoli di legno consunti dal tempo e dagli avventori. Tra gli aromi speziati della cucina e il tintinnare dei piatti e delle posate. Tra le chiacchiere della gente, il loro vezzeggiarmi. Le mani si tendevano oltre i tavoli per farmi una carezza o un buffetto gentile. Non mi scostavo, sorridevo. Era il mio mondo.
La mamma era sempre indaffarata a spadellare, pulire, lucidare e aveva un bel sorriso per tutti. Il papà stava dietro al bancone, intrattendo piacevolmente i clienti con la sua sottile ironia.
Al pomeriggio, puntualmente alle tre, arrivava il nonno. Entrava, salutava con un “Oilà” e sedeva al tavolo accanto alla finestra, che ormai era da tutti ritenuto il suo. Poi si rivolgeva a mia madre e chiedeva “’n bicier dal mè”.
Mentre aspettava si arrotolava una sigaretta. Poco dopo la mamma arrivava con un bicchiere di vino rosso e glielo porgeva. “Merci” le diceva. Poi silenziosamente, quasi si trattasse di un gesto rituale, lo portava alla bocca, ne assaporava un sorso e socchiudeva gli occhi. Ogni volta lo stavo ad osservare e pensavo “com’è beato in questo momento”.
Il nonno aveva uno sguardo serio, ma non intimoriva.
Era di poche parole, ma quando diceva qualcosa tutti lo stavano ad ascoltare con attenzione e, se c’era un problema, ci si affidava a lui per risolverlo. Se ne stava seduto sereno, a contemplare il paesaggio dalla finestra e, mentre fumava e sorseggiava il vino, pensava. Cercavo di immaginare quali fossero le riflessioni e le fantasie che gli passavano per la mente. Rimaneva lì, assorto, finchè arrivava qualcuno dei suoi amici per giocare a carte. E la sua quiete estatica lasciava spazio ad una tavolata allegra che, tra una mano e l’altra, inframmezzava risate, discorsi seri e un buon goccio di vino.
Mentre giocavo prestavo attenzione ai loro dialoghi, alle richieste di un mezzino di “barbera”, “spanna”, “gattinara” e questi nomi suonavano affascinanti al mio orecchio suscitando immagini con le quali popolare le mie favole.
Tra le numerose varietà, c’era poi il vino del nonno. Il Boca. Il più speciale di tutti.
Portava lo stesso nome del luogo dove lui era nato e si produceva. Circa una volta al mese partiva con la sua centoventisette verde. In fondo al vialetto imboccava lo stradone e percorreva cinquanta chilometri per andarlo a prendere. Quando ritornava a casa aveva il baule pieno di bottiglie e gli occhi che brillavano per la gioia di aver rivisto i luoghi dove era cresciuto. Faceva finta di nulla cercando di non lasciar trasparire la contentezza che non avrebbe mai confessata ad anima viva. Si era trasferito qui sul lago per amore di nonna Margherita, per metter su casa e famiglia.
Ma le sue radici erano conficcate profondamente nel cuore.
Fin da bambina ero incorreggibilmente curiosa. Così un pomeriggio che la mamma era fuori a stendere i panni e non c’era nessun altro nei paraggi, volendo a tutti i costi provare la sensazione di estasiata meraviglia che vedevo dipinta sul volto del nonno quando sorseggiava quieto il suo “Boca”, andai di soppiatto verso la dispensa, estrassi una bottiglia già stappata, presi un bicchiere dalla credenza, lo riempii, rimisi la bottiglia al suo posto e, con il cuore che batteva all’impazzata per l’eccitazione, mi diressi fulminea verso la scala che conduceva in cantina. Camminavo in fretta, guardinga, coprendo il bicchiere con il palmo della mano per non versarne il contenuto.
Quando raggiunsi la cantina, aprii il pesante portone di legno e mi intrufolai dentro.
Non mi aveva vista nessuno.
Trassi un sospiro si sollievo nell’umidità odorosa di muffa e, ormai rilassata, mi avvicinai all’unica alta finestra che si affacciava sul prato esterno. Vedevo molto poco, niente più di un po’ d’erba e un angolo di cielo. Posai il bicchiere su una scatola di cartone. Avevo la mano bagnata di vino. Senza far rumore avvicinai una cassetta di plastica vuota e mi sedetti. Era tutto pronto per la nuova esperienza e lo ero anch’io. Trepidante avvicinai il bicchiere alle labbra…
“Spero almeno che sia il mio!”
Feci un balzo nell’udire queste parole, il cuore si impennò per lo spavento. Mi voltai, ma avevo già riconosciuto la voce.
“Ciao nonno….”
“Ciao. Vieni che andiamo di sopra a berlo insieme. Qui fa freddo ed è umido. E poi, di nascosto, non si assapora.”
Prese il bicchiere, lo avvicinò al naso per odorare il contenuto rosso rubino e disse “Si, è proprio il mio. Vedo che sai scegliere bene.”
Aveva il suo abituale tono calmo e disteso. Nonostante la mia coscienza tutt’altro che tranquilla, mi affidai a lui fiduciosa e lo seguii. Sedemmo uno di fronte all’altra, il bicchiere di vino in mezzo a noi.
“Assaggia.” mi disse.
Emozionata sollevai il bicchiere e lo assaggiai. Aveva un gusto strano, nuovo per me. Era insieme aspro e fruttato, asciutto sulla lingua. Era buono.
Non credo dimenticherò mai la sensazione che mi diede quel mio primo sorso di vino.
Ad un tratto arrivò mia madre e, con espressione sbalordita, domandò “Cosa state facendo voi due? Nonno, sei ammattito? Dare del vino a una bambina di sette anni?”
“A sum mia drè dag D.D.T.” rispose il nonno.
La mamma, certa che più tardi avrebbe avuto i chiarimenti necessari, con una smorfia di divertita rassegnazione andò in cucina.
“Allora, com’è?” mi chiese.
“E’..strano. Fa il solletico alla lingua. Ma poi è anche dolce.”
Lui sorrise e aggiunse “Ogni vino ha le proprie caratteristiche e particolarità: aroma, profumo, consistenza. Addirittura ogni bottiglia, pur di uno stesso tipo, è diversa dall’altra. Imparerai. Dietro c’è un lungo percorso di tradizione, amore e lavoro. Per questo va gustato con il rispetto che merita.”
Da quel giorno imparai molte cose su di esso, mi appassionai alla sua storia ed al suo evolversi nel tempo.
Oggi l’osteria non c’è più. L’ho trasformata in casa mia.
Nemmeno il nonno c’è più. E’ diventato questo calice di Boca che sorseggio, rievocando.
Il vino è molte cose. Piacere. Condivisione. Esperienza.
E’ trasformazione.
Ed è memoria”
Mi affascinano e non mi stancano mai le storie del mondo del vino, incredibili o semplici che siano, riescono a far meglio comprendere ed amare i prodotti della straordinaria collaborazione fra terra ed uomo.
Grazie Madeleine…
Fonti:
Testo: raccontioltre
Immagini: Tenuta Olimbauda e Scent of a (wine)woman